L’intervento del Sottosegretario Mantovano al 2° Festival dell’«Umano tutto intero»

Source: Government of Italy

Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha partecipato alla seconda edizione del Festival dell’«Umano tutto intero», nella sessione dedicata a “L’eccezione (antropologica) italiana per l’Europa e il mondo”. L’evento è organizzato da “Ditelo sui tetti”, network frequentato da oltre un centinaio di associazioni, che, ferma restando la piena autonomia di ogni realtà associativa, ha lo scopo di dare voce a un giudizio culturale comune sulle dinamiche normative e “pubbliche” che incidono sulla concezione dellʼumano, ritenendo centrale nel “cambio dʼepoca” (Francesco, 2015) delle società italiana e occidentali la
“questione antropologica” (Benedetto XVI, 2019). 

I ‘luoghi’ e le ‘strade’ della Speranza – Intervento del Sottosegretario Mantovano

Pochi giorni dopo l’elezione al Soglio pontificio, il 12 maggio, Papa Leone XIV ha incontrato i giornalisti e ha rivolto loro un discorso, tanto intenso quanto importante, su quella che potremmo definire l’ecologia della parola. Partendo dal Discorso della montagna, e dalla proclamazione di Gesù “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9), il S. Padre ha richiamato “ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla”. 

Il discorso è stato severo ma vero. Se leggiamo – una dietro l’altra – le espressioni adoperate dal Papa per denunciare i passaggi più frequenti del discorso pubblico, scopriamo che Egli ha parlato di: “stereotipi e luoghi comuni”; “cedimento alla mediocrità”; “linguaggi senza amore, ideologici e faziosi, colmi di pregiudizi, rancore, fanatismo, odio”. Per questo il lavoro a cui il Pontefice richiama è quello di “disarmare le parole”, per uscire dalla confusione di quella Torre di Babele nella quale siamo imprigionati. 

Ce n’è sicuramente per i giornalisti: ma non è di questo che vorrei dire adesso. Vorrei dire invece che, per analogia, ce ne può essere anche per chi svolge una funzione politica e istituzionale. Perché, come esiste l’ecologia della parola, cui tendere, si dovrebbe parlare pure di ecologia della politica: attenzione, non di politica ecologica, che pure ha un senso.

Praticare l’ecologia della politica significa, per richiamare espressioni familiari, “lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare”. È poco? È l’essenziale per una ecologia della politica: quell’espressione riassume il senso dell’onore e l’amore per la terra, il coraggio di fronte alle difficoltà, il valore dell’amicizia per affrontare le sfide, una visione del futuro carica di speranza, il ripudio della tentazione del potere fine a sé stesso.

Per lasciare “terra sana e pulita da coltivare” sono necessari tempo e fatica. In più, in coerenza col filo conduttore del Festival, vanno costruiti luoghi e strade di speranza.

Partiamo dal fattore tempo. L’Italia oggi, nonostante le sue oggettive fragilità, è al centro dello scenario internazionale. Perché? Perché è guardata con rispetto e ammirazione dai media di tutto il mondo? Perché la Presidente Meloni è sulle copertine dei principali magazine di altre Nazioni? Per una serie di ragioni, che certamente saranno state illustrate, ciascuno per la parte di competenza, dai Colleghi di governo che si sono succeduti in questi due giorni. C’è però qualcosa che lega le singole realizzazioni della nostra azione: si chiama stabilità politica. Non stiamo inseguendo il record di durata dell’Esecutivo: è che la stabilità dell’attuale Governo, e della maggioranza che lo esprime, ha ricadute concrete importanti.

Le ha sul piano finanziario, visto che per la prima volta dall’ottobre del 2017 l’agenzia S&P ha elevato il rating dell’Italia: tra le esplicite motivazioni vi è la longevità dell’Esecutivo e la stabilità della maggioranza parlamentare. Ho citato S&P, ma il miglioramento del rating è attestato da tutte le agenzie.

Le ha sul piano dell’economia reale. Il Rapporto annuale presentato il mese scorso dell’ISTAT descrive elementi di fragilità del sistema Italia: dal crollo demografico, alla fuga dei cervelli, non compensata da una corrispondente attrazione di talenti stranieri, e così via. E sappiamo che ne esistono tante altre, ben illustrate nel recente libro di Garofoli e Mattarella, Governare le fragilità: dalla perdurante scarsa efficienza della p.a. ai problemi che provocano le giurisdizioni.

Ma tutto questo non cancella i punti di forza: nel 2024 l’economia italiana ha continuato a crescere, se pure a un ritmo moderato, comunque superiore, per es., a quello della Germania; l’occupazione ha continuato a espandersi (+1,5%) e la crescita dell’occupazione è prevalentemente riconducibile alla componente a tempo indeterminato (+3,3); vi è stato un parziale recupero nel potere d’acquisto dei salari; lo spread è sceso a livelli ignoti da anni. Quest’ultimo non è un dato meramente finanziario: spread più basso significa riduzione degli interessi sul debito pubblico, quindi più risorse a disposizione per gli obiettivi per noi prioritari, quelli di cui avete parlato nella vostra due-giorni. 

La stabilità politica non consiste soltanto nella concordia tra gli alleati di Governo e tra i Ministri, che pure non è così scontata: ci sono inevitabili differenze su dossier importanti, costituiscono terreno di confronto ma anche di composizione. E’ qualcosa di più ampio: è la condivisione di valori e di un orizzonte politico di ampio respiro. 

Questo patrimonio di credibilità e di cultura politica è importante per l’Italia in un frangente storico particolarmente complesso. Nel 2005, nonostante la breve distanza dall’attacco alle Twin Towers, si era toccato il livello più basso di conflitti armati nel mondo dalla fine della Guerra Fredda (appena 17), e non vi erano guerre tra Stati. Oggi, venti anni dopo, i conflitti nel mondo hanno superato il numero di 50, e fra i principali vi sono due guerre tra Stati, quella tra Russia e Ucraina, e quella fra Israele e Iran. 

In questo contesto noi siamo chiamati a svolgere, fra gli altri, due compiti, tanto delicati quanto difficili. Il primo consiste nel rappresentare una forza che non teme di porsi in rapporto dialettico con l’UE, o con altri partner internazionali, ma resta sempre con le sue scelte ben ancorata all’Europa e all’Occidente; così facendo, fra l’altro, offre un’alternativa positiva rispetto alle forze insoddisfatte dagli indirizzi politici seguiti finora dall’UE (dal green deal all’immigrazione), che sarebbero altrimenti tentate di “punire” l’establishment, abbracciando atteggiamenti anti-sistema.

Il secondo compito è quello di ricomporre l’unità dell’Occidente, per riavvicinare le due sponde dell’Atlantico: unità quale obiettivo da raggiungere, e non quale punto di partenza, perché non è così ovvio che esso sia condiviso. E non è condiviso perché il perseguimento dell’unità dell’Occidente presuppone quale dato acquisito l’unità dell’Europa: culturale e politica prima ancora che monetaria ed economica. E questa unità nella sostanza non c’è, se continua a prevalere l’idea che la costruzione europea derivi dalla costrizione a regole comuni, prescindendo dai contenuti. 

Va ritrovata l’unità dell’Occidente. Ma la nostra prospettiva, sulla scia dei Maestri del Medioevo cristiano, è di non fermarsi a essa. Solo un Occidente unito è in grado di dialogare, e di costruire percorsi comuni, con l’Oriente e con il Sud del mondo. L’Italia ha collocazione geografica, tradizione religiosa, e oggi anche volontà politica per promuovere ricomposizioni. È percepita quale interlocutore affidabile e autorevole dai popoli e da tante elité politiche africane – lo attestano l’accoglienza e il successo delle prime applicazione del Piano Mattei -, e al tempo stesso dalle leadership del “Mediterraneo globale”, fino alle potenze del Golfo. Loro non dubitano del nostro radicamento in Occidente, ma hanno aperto o riaperto con interesse canali di interlocuzione con l’Italia, perché ritengono quest’ultima utile e importante.

Per “lasciare terra sana e pulita da coltivare”, oltre al tempo è necessaria la fatica. Agli Universitari che incontra il 26 marzo 1981, San Giovanni Paolo II consegnava un insegnamento straordinario: “Essere liberi (…) non vuol dire godimento ma fatica: la fatica della libertà”.

E qui soccorre la speranza, cui avete dedicato questa due giorni. La speranza non disegna sogni facili, impegna in percorsi faticosi e difficili. Più difficili sono più esigono speranza. La speranza facile non esiste: se è facile non è speranza, al massimo è una illusione. 

L’ecologia della politica va alimentata con la speranza. Di fronte alle tragedie che agitano il mondo – ai missili, alle devastazioni, alla fame -, la speranza fa guardare al futuro. Per questo portiamo in Italia centinaia di bambini provenienti dalle zone di guerra, a cominciare da Gaza, e assicuriamo loro le cure necessarie; per questo contrastiamo i trafficanti di uomini, e così riduciamo drasticamente le morti in mare dei migranti; per questo interveniamo nelle nostre periferie col ‘modello Caivano’, che ormai esportiamo in varie aree di degrado, e nelle periferie esistenziali delle dipendenze dalle varie droghe. 

La speranza è inseparabile dalla fede, che così profondamente continua a permeare la nostra Nazione. Noi siamo nati e cresciuti in un contesto cristiano, al di là della personale professione religiosa, ma forse siamo propensi a dare tutto per scontato, e questo rischia di non farci cogliere la ricchezza dell’Italia. 

Per apprezzare quello che abbiamo, anche sul versante delle ricadute civili della fede, proviamo a fare l’esercizio di come sarebbe un mondo senza millenni di cristianesimo. Non è difficile; guardiamo, per es., a una delle manifestazioni artistiche più elevate dell’antichità pre-cristiana: le tragedie dei Greci. Sono affascinanti ancora adesso: ma ci raccontano di quanto sia vero che, come ricordava don Fabio Rosini in una recente omelia, alla fine ciò che connota l’uomo è la sua relazione con il futuro. Tutto dipende dal modo di pensare ciò che ho davanti. Se il mio futuro è un cielo oscuro senza stelle, vivo nell’oppressione, e – come Edipo – vedo nella morte la liberazione da una condizione insuperabile di dolore, ovvero – come Elettra – trovo nella vendetta più atroce l’appagamento della mia sofferenza. Stiamo tornando a quel modo di pensare? Se invece sono consapevole che il futuro è nelle mani di un Padre buono, sono certo che a me provvede la Provvidenza: conosco il mio domani, so dove va la mia esistenza. 

La fede c’entra sempre. Una delle aree di disagio interessate dagli interventi ‘modello Caivano’ è il quartiere Borgo Nuovo di Palermo, esempio di un’edilizia che sintetizza al meglio il mix tra mafia e Prima repubblica praticata in quei luoghi negli anni 1960 e 1970. A Borgo Nuovo c’è una chiesa, dedicata all’Apostolo Paolo: pur essendo stata costruita in quel periodo, è chiusa già da vent’anni, perché cadeva a pezzi. È diventata una cosa di mezzo fra un magazzino e una discarica: le funzioni religiose si celebrano nelle stanze della canonica.

È venuto giù anche un grande Crocifisso di legno, che nella caduta ha perduto le braccia. Questo Crocifisso, ammaccato e monco degli arti superiori, per anni e fino a ieri giaceva su quello che era l’altare principale, coperto da un lenzuolo. Ieri col commissario di governo Ciciliano e con le autorità di Palermo abbiamo programmato i lavori, riunendoci nei locali della parrocchia. Già da oggi, grazie anche al ministro Bernini, il Crocifisso è stato preso in consegna dall’Accademia delle belle arti di Palermo per essere restaurato.

Dobbiamo ripartire dalla Croce. Non solo per una ragione di fede, ma per una ragione di civiltà: da 2000 anni fino a oggi, ovunque è sorta la civiltà, si è sempre sviluppata attorno a una croce. Attorno al Crocifisso rimesso a nuovo a Borgo Nuovo sarà ricostruita come si deve la chiesa, saranno realizzati centri sportivi, sarà ripristinato il verde, saranno attivate scuole.

Un’ultima parola, se permettete, sulla speranza. La speranza non è sola. L’individualismo non aiuta la speranza. La speranza si alimenta di un amore ricevuto e donato. Per questo una società di persone senza legami, di persone sole, piegate alla ideologia dell’individualismo e dell’autodeterminazione più difficilmente spera. La speranza è una compagnia, come quella che ci lega qui questa sera. E questo per me è ragione di grande speranza.